La Rivoluzione non si può fare perché non esiste nessuno contro cui farla, così apre il suo sito Daniele Carrer, giovane regista di cortometraggi, del 1977, originario di Conegliano (TV). Chi fosse incuriosito dalla sua arte può collegarsi su www.danielecarrer.it e dare un’occhiata ai suoi video. Video che il Prof. Conti dell’Università degli Studi di Venezia, con cui ha collaborato per girare Autopia Zen 41600, definisce come rappresentativi del cinema dell’assenza, in cui si mostra tutto quel che manca nella società d’oggi, valori, sicurezze, ecc…
Carrer sta percorrendo la via del corto da una decina di anni e riscuote sempre un certo successo, tanto che i suoi video hanno vinto numerosi premi come il CineCortoRomano di Roma, il Sony Short Festival di Milano, anche internazionali, e se non vincono sono comunque segnalati fra quelli degni di nota. Le sue storie raccontano la vita del Nordest, questa nuova realtà territoriale che negli ultimi quindici anni è passata da polo economico a fenomeno nazionale e che pare essere sempre più viva anche da un punto di vista culturale. C’è fermento, un fermento che si riscopre in autori come Carrer che descrivono la vita dei giovani d’oggi, per i quali è così difficile prefigurarsi un futuro. Il paesaggio-sfondo dei suoi corti è fatto di natura e capannoni ed uno dei valori che descrive ed a cui dedica più spazio rappresentativo è quello dato dal lavoro, così profondamente radicato nel Nordest. Ma Carrer mostra i limiti-distorsioni a cui può giungere, basti pensare a Ketchup Film ed al rapporto descritto fra un padrone-datore di lavoro ed un assunto, su cui è il caso di riflettere.
Carrer rappresenta anche lo sgomento di una società priva di punti di riferimento, in cui si fa largo dentro ognuno di noi, la paura, l’insicurezza. Quella paura che in Italia 2006 vede il protagonista (lo stesso regista) alle prese con l’inspiegabile sparizione delle sue scarpe da tennis, appoggiate sul davanzale della finestra di casa. L’idea di una presenza estranea, all’interno della sua abitazione, prende possesso di lui e per tenerla a freno, non gli resta che impugnare una pistola, anche se questo non gli basterà per ritrovare la serenità.
Il suo montaggio, spesso paratattico, fatto di un continuo scontro fra quello che si vede e quello che si dice, come nella sala d’attesa di un aeroporto, descritta in Lieve, risulta essere davvero efficace, nonostante i mezzi a disposizione che, trattandosi di autoproduzioni, sono necessariamente limitati. Al di là delle scarse risorse economiche, le risorse di talento e scrittura non mancano al regista che possiede già una sua “poetica” e che dà voce ai pensieri ed alle storie di molti giovani che vivono in questo territorio.
Silvia Gorgi peer padovanews.it
2009
Simone Soldera intervista Daniele Carrer per la rivista Duemila. Guarda l’originale.
Esiste un momento in cui hai scelto di dedicarti anche alla regia?
Da ragazzini si è affascinati dal mondo che esce dalla televisione, e a 10 anni poco importa se il modo per arrivarci è diventare un calciatore, un cantante o un attore. Abbandonate le mie velleità sportive e compreso che ci voleva troppo tempo per imparare a suonare uno strumento ho optato per il cinema perché era l’unica forma di espressione che rimaneva.
Ci sono persone che ti hanno aiutato in questo iter?
I primi sono sempre compagni di banco ed amici, che puntualmente se ne vanno appena scoprono che per fare un cortometraggio ci si impiega più di un pomeriggio. L’arte del cinema è inizialmente solitaria, è fatta della tua stanza e del tuo PC, e di città piene di persone che ti guardano storto quando monti un cavalletto. In generale gli aiuti veri li ho avuti solo da persone sincere che condividono veramente la passione per il cinema e che se non fosse davvero così mi avrebbero abbandonato subito.
Quali corti sei riuscito a realizzare finora? Ce n’è qualcuno in particolare che ti ha regalato più emozioni di altri?
Per dire un numero bisognerebbe stabilire bene il confine tra un cortometraggio e uno dei tanti video che si realizzano per amore della sperimentazione e che restano il più delle volte dentro al computer che li ha creati. Se consideriamo quelli proiettati almeno una volta ad un Festival credo che siamo arrivati ad una decina, ma sinceramente non li ho mai contati. Sceglierne poi uno preferito è come scegliere un figlio prediletto, e non mi sembra il caso.
Da dove viene la tua ispirazione per realizzare nuovi video?
L’ispirazione tecnica ultimamente la prendo molto di più da quello che si vede su internet, piuttosto che dalla televisione, come succedeva dieci anni fa. La rivoluzione informatica ha portato la democrazia nel mondo delle immagini in movimento. Trovo molto più piacevoli certi video da quattro soldi che si vedono su youtube di tanti spot milionari che nonostante la perfezione tecnica non lasciano il segno.
Per quanto riguarda i contenuti, credo che non esista migliore ispirazione che guardarsi in giro nella vita di tutti i giorni. Fanno involontariamente ridere i documentari storici che alcuni ragazzini provano a girare, perché chi li guarda li confronta obbligatoriamente con lavori analoghi prodotti da troupe di professionisti. Gli stessi ragazzini potrebbero fare invece qualcosa di interessante se non andassero troppo lontano dalle loro vite e parlassero di qualcosa che conoscono bene e che riguarda quello che li circonda da vicino.
Quali sono i tuoi film preferiti? Che attori secondo te sono i più meritevoli?
Ho rivisto pochi giorni fa Pulp Fiction, e lo ritengo sempre un gran film, fatto di grandi attori e soprattutto di un genio indiscutibile. Tarantino ha anticipato i tempi e ha dato una svegliata all’ambiente intellettuale che monopolizzava la critica. E’ stato l’uomo che ha sdoganato il regista “fai da te”. Non ha senso perdere 10 anni in una scuola di cinema per imparare a memoria che tipo di illuminazione usava Ejzenstejn e non sapere nemmeno che forma ha il mondo che ti circonda. E’ lo stesso motivo per il quale se chiedi a un qualsiasi diplomato del Centro Sperimentale quale sia il suo regista preferito risponde sempre David Lynch, che più che film produce videoarte, il più delle volte incomprensibile a qualsiasi non ipocrita. Le cose cominceranno a cambiare solo quando gli stessi giovani registi dichiareranno di amare la serie Sex and the City, a mio avviso vero capolavoro di sceneggiatura dell’epoca moderna.
Ci sono stati riconoscimenti per la tua attività?
Ho avuto un sacco di premi, in Italia e all’estero. Ma i premi ai Festival non contano niente, perchè sono altre, ahimé, le cose che fanno andare avanti nel mondo del Cinema. E’ bello prensentare un curriculum pieno di riconoscimenti, e se dietro a me ci fosse qualcuno bravo a tenere le pubbliche relazioni potrebbe anche contare qualcosa, ma a questo punto mi interessa meno che in passato. Nell’anno solare 2003 sono stato proiettato a 45 manifestazioni, mentre dall’anno scorso ho deciso di usare diversamente il tempo che prima impiegavo a compilare entry form e a registrare DVD.
Come trascorri il tuo tempo libero? Hai altre passioni oltre a quella della regia?
Facendo un lavoro normale durante il giorno (perché ci tengo a sottolinearlo: io nella vita mi mantengo facendo qualcosa di diverso dal fare il regista), il poco tempo libero che ho a disposizione lo impiego quasi tutto per i miei video e, ultimamente anche per la fotografia, che è una forma di espressione molto più semplice e veloce del cinema. Grazie ai voli low cost, ho passato il 2008 in giro per le Capitali europee a rubare immagini e video. Non sono persona che quando ha un’ora libera si addormenta sul divano.
Che progetti hai per il 2009?
Dal punto di vista tecnologico sono molto affascianato dall’alta definizione in video, e sto cercando di approfondire le prestazioni delle nuove telecamere per capire quanto siamo vicini ad un radicale cambio epocale. Credo che quest’ultimo passaggio tecnologico rappresenti la morte definitiva della pellicola e la conseguente democratizzazione finale del mezzo cinematografico.
Sono stati esaustivi i risultati che hai ottenuto con il tuo lavoro?
Il problema del Cinema in Italia è un po’ il problema di tutta la Società. Manca la cultura del merito. Chi va avanti lo fa quasi essenzialmente perché, per usare un eufemismo, è stato bravo nel curare i rapporti interpersonali. Lo stesso motivo per cui i giovani ricercatori scappano all’estero. Chi glielo fa fare di rimanere in Italia quando basta entrare in un’Università e vedere che il barone di turno ha piazzato parenti ed amici nei posti più ambiti?
Quali sono i fatti di cronaca che finora ti hanno più interessato? Quali i problemi della società moderna se ce ne sono?
Magari la Società moderna non avesse problemi… Di certo non sono il contestatore di turno che si lamenta sempre e non fa mai niente di buono per cambiare le cose. Mi piacerebbe mettere il naso sul fenomeno della speculazione edilizia. Ma lo sai che metà delle abitazioni della Provincia di Treviso sono vuote? Pensa quanto cemento è stato gettato per niente e quanto si è speculato sul paesaggio e sulle tasche di chi vuole solo costruirsi una vita.
Quali sono i tuoi consigli per i giovani attori e i giovani registi?
Cambiate lavoro o andatevene dall’Italia.
2007
Ivan Ottavian intervista Daniele Carrer per Blista. Guarda l’originale.
Da cosa nasce la scelta “dell’hobby” del videomaker?
Il cinema racchiude in sé diverse forme di espressione: scrittura, fotografia, recitazione, musica e altre ancora. A diciotto anni avevo un sacco di amici che preferivano entrare in un gruppo o mettersi a cantare, perché è la cosa più facile per qualcuno che rincorre il sogno di una vita migliore e non sa giocare a calcio. Provare a fare cinema significa, se va bene, avere un pubblico tanti anni dopo che hai preso in mano la telecamera. Giungo alla conclusione che evidentemente mi piacciono le imprese difficili.
Dovendoti presentare come regista e attraverso le tue opere, come ti definiresti e cosa vuoi rappresentare e comunicare visivamente?
Ho sempre cercato di fare qualcosa di innovativo, di assorbire dalla televisione, prima ancora che dal cinema che è un ambiente molto statico, le nuove tendenze del montaggio e della regia. Tanti autori si buttano sulla fiction, come se non sapessero che c’è gente che ha mezzi tecnici ed economici molto migliori dei loro. Ho sempre puntato su un linguaggio alternativo, cercando nell’assenza di riferimenti narrativi la giustificazione all’assenza di budget per rappresentare il mondo sotto il filtro dei miei occhi. Se so che a un’ora di macchina da me c’è la diga del Vajont penso a quello che rappresenta per l’immaginario collettivo e di conseguenza ci costruisco sopra una storia che posso girare. Il videomaker medio, invece, è capace di passare mesi a scrivere un poliziesco per accorgersi, alla fine, che la sua Punto non è tanto credibile come macchina dell’FBI.
So che ti occupi di tutte le fasi della costruzione dei tuoi corti, dal montaggio allo script. Quali strumenti usi? L’importanza dei dialoghi e degli attori?
Faccio tutto io perché mi fido unicamente di me. Quanti gruppi di lavoro si formano e si sciolgono nel giro di un mese, perché uno di quelli che è partito con il massimo entusiasmo la sera comincia a preferire il calcetto con gli amici a quella che un mese prima doveva essere l’inizio di una carriera cinematografica sfavillante? Ed è giusto che sia così, perché la selezione naturale è necessaria. Sono capaci tutti a iscriversi al Dams per parcheggiare la propria vita fino a 25 se non 30 anni. E dopo cosa sanno fare? Quanto sono disposti a fare cinema e quanto invece hanno scelto la loro facoltà perché affascinati dal luccichio che arriva da Hollywood? Nel 2007 è facile fare un cortometraggio. Bastano 300 euro per una telecamera, 400 per un portatile di cui è pieno Ebay, e 0 per dei software che si trovano ad occhi chiusi nei programmi di file sharing. C’è gente che con gli stessi soldi, in America, è riuscita a trovare una distribuzione, quindi non ci sono giustificazioni diverse dall’incapacità e dalla mancanza di carattere se non ci riesce a fare altrettanto. Troppo facile dare la colpa allo Stato, alla politica e alla sfortuna. Torniamo al discorso di prima sulla sceneggiatura: se pensi troppo in grande e non hai un attore all’altezza del personaggio che hai scritto puoi anche andare a giocare a calcetto la sera, perché il tuo film sarà al massimo sufficiente per le serate allegre con gli amici.
Quali sono le tue locations preferite quando devi girare un corto? Che background vuoi fare apparire e trasmettere nella produzione dei tuoi lavori?
Non occorre andare tanto lontani. Prima ho citato il Vajont, ma a un’ora di macchina c’è Jesolo, fantastica per il mare d’inverno, c’è Venezia, c’è Trieste, ci sono le ville del Brenta, ma anche quelle stesse zone industriali di cui parlano sempre in televisione, senza sapere quello che dicono. Proprio per questo mi piace dare una caratterizzazione fortemente Veneta ai miei lavori, perché io so di parlare di qualcosa che conosco a differenza di chi ha solo interesse a sputtanare o esaltare il miracolo Nordest.
A chi ti ispiri maggiormente a livello cinematografico? Quali sono i tuoi registi preferiti e che puoi considerare maestri?
Più che registi citerei dei film. Magnifico “Pulp Fiction”, un po’ meno “Kill Bill”, comunque fantastico, perché lì sembrava che ad ogni inquadratura Tarantino volesse dire allo spettatore “Ehy guarda che splendido, sono Quentin Tarantino!”. Poi altri titoli che adoro, soprattutto per la sceneggiatura: “Il Grande Lebowsky”, “Clerks”, le commedie italiane degli anni 60 come “Il Sorpasso”. E poi i cartoni animati degli anni 80, i videogiochi, gli spot di certi canali Sky fatti con After Effects e così via. I grandi videomaker avrebbero citato tutti David Lynch, ma io credo che siano solo dei grandi ipocriti.
Come definiresti l’attuale situazione del cinema italiano?
Il cinema italiano è in coma profondo. I registi e i produttori mi sembrano gli abitanti di Ceppaloni in fila fuori dalla villa di Mastella la domenica mattina per trovare un paraculo. Sono cagnolini che scodinzolano sperando che Rutelli nella prossima Finanziaria gli sganci qualche milione di euro. Non si va da nessuna parte in queste condizioni. Nei produttori manca lo spirito imprenditoriale, quel poco coraggio che basterebbe per credere nel cinema a basso costo, ma d’altronde chi glielo fa fare se i presupposti sono questi.
Nella rete si trovano diversi siti che portano un riferimento a Daniele Carrer, e in alcuni si trovano delle critiche, come vivi queste ultime, ti ci rispecchi? E se dovessi farti un’autocritica che diresti?
Io cerco sempre di andare avanti per la mia strada. I videomaker sono primedonne, quindi è normale che io sia antipatico a tanta gente. E’ come la ragazza che viene portata dal fidanzato a vedere la lap dance e che la prima volta troverà nella ballerina la cellulite, la seconda le tette rifatte e la terza le gambe storte. Fa tutto parte del gioco. Posso fare un po’ di autocritica nel dire che nel passato mi è mancato il coraggio di andarmene via. Magari adesso sarei molto più in là della vita che mi aspetta domani mattina, ma non è detto che un giorno le cose non possano cambiare.
Com’è stato e continua ad essere il tuo impatto con il circuito dei Festival e delle rassegne nazionali ed estere?
I Festival sono per un regista quello che i concerti sono per chi suona. Ci sarebbe tanto da dire sul rapporto che si instaura con gli altri autori e gli organizzatori, ma preferisco pensare a queste manifestazioni come l’unico momento in cui, dopo mesi di solitudine, trovi un confronto fisico con un pubblico. In dieci anni e più di duecento selezioni ne ho viste e sentite di tutti i colori. E’ bello citare Londra, Karachi, San Francisco e Barcellona nel proprio curriculum, ma alla fine non è questo che ti porta al successo. Il più sfigato passaggio su una delle mille Tv satellitari assetate di cortometraggi a costo zero ti dà più spettatori in una volta di quelli che puoi avere nei Festival in 5 anni. Certi eventi, spesso, si riducono peggio dei cagnolini di Rutelli che citavo sopra, alla ricerca disperata dei soldi pubblici che avanzano nelle pieghe dei bilanci di un Comune che vuole darsi un tono culturale.
Qual è secondo te la tua opera più rappresentativa?
“Improvvisazioni di un artista fallito”, visto il titolo. Le sequenze che ho girato a Parigi sono quanto di meglio sia mai riuscito a fare, anche se, come sempre accade in questi casi, non se n’è accorto nessuno, a differenza di altri miei lavori più furbi che rimangono meglio in testa. E’ un video che mi appartiene talmente tanto che non ho voluto in nessun modo che andasse in onda nella monografia su La7. Forse è pubblicato su qualche sito, o forse ce l’ho solo io nel Pc e se mi dovesse saltare l’hard disk andrebbe perso per sempre. E’ giusto che sia così.
Cosa consiglieresti ad un giovane che vuole cominciare ad affacciarsi al mondo del videomaking?
Gli consiglierei di pensarci due volte, perché è molto più difficile di quanto sembra. Essere videomaker vuol dire chiudersi in casa, dormire poco, farsi prendere per psicopatico dagli amici. La gran parte di quelli che vogliono diventare registi credono che oggi si compra la telecamera e fra una settimana Hollywood chiama. Ho visto un sacco di gente piena di talento che alla fine ha mollato dopo anni di sacrifici. Se sei un ricercatore scappi all’estero, se sei un regista, di fronte alle ingiustizie, preferisci fare l’impiegato e andare a noleggiare i film la domenica mattina. L’Italia è un gran Paese.
Un classico, progetti futuri?
Voglio continuare a fare cinema rock ‘n roll. Mi piace che la gente capisca che mi sto divertendo, come quando Brad Wilk suonava la batteria nei Rage Against the Machine e si capiva subito che ci godeva un sacco a pestare in quel modo. Devo comprare un altro dominio, ma non posso svelarlo perché non l’ho ancora registrato. C’entra Conegliano e ti garantisco che colpirò allo stomaco come ho sempre fatto. Continuerò con l’irriverenza di chi non è ospite a fare quello che già faccio per padovanews.it, e anche oltre. Quattro anni fa stavamo per fondare una Telestreet, adesso con internet possiamo arrivare a un miliardo di persone con meno di trenta euro all’anno. Non è sempre detto che le cose con il tempo peggiorino.
2006
Federico De Nardi intervista Daniele Carrer per “ABC Veneto”. Guarda l’originale.
Videogiochi e ‘Taxi driver’ di Robert De Niro… raccontaci che influenza hanno avuto su quello che fai.
La mia generazione è stata influenzata più dall’uomo Tigre e da Double Dragon che dai grandi autori che ogni videomaker deve scomodare per sentirsi intelligente. Taxi Driver, invece, è un film epocale, girato con pochi soldi e che a distanza di trent’anni è fresco come un cornetto alle 7 di mattina.
Qual è il più bel complimento che ti hanno fatto per i tuoi corti? (e quello più brutto?)
Mi fa piacere che di volta in volta mi vengano attribuite simpatie per opposti estremismi politici, perché vuol dire che quando c’è da demolire non guardo in faccia nessuno. Non sopporto i complimenti preconfezionati, gli stessi che ho fatto io a Manuel Agnelli la volta che me lo sono trovato davanti per caso.
Cosa pensi della vita in generale? (cioè, cos’è la prima cosa che pensi quando ti alzi?)
Penso che bella o brutta che sia l’importante sia farsela passare senza girarsi troppo nel letto prima di andare a dormire.
Quale sarà il tuo prossimo progetto?
Una sitcom seriale di 3 minuti ambientata in una sala operatoria.
Cosa pensi del Veneto e in particolare della tua città, Conegliano? (avresti voluto nascere altrove oppure no…)
Conegliano è magnifica, come Treviso. Sono gli interland che ci fregano nel pensiero che il resto dell’Italia ha di noi.
Se tu potessi girare un documentario ambientato nel territorio, quale argomento ti piacerebbe affrontare?
Le speculazioni edilizie. Qualcuno mi deve spiegare perché Conegliano ha 35 mila abitanti da 30 anni e ogni anno continuano a costruire centinaia di abitazioni che costano sempre di più.
Qual è il tuo piatto preferito?
Pizza, visto che vivendo da solo non ho mai tempo per cucinare.
Come vorresti morire?
Nella consapevolezza di avere vissuto il massimo di quello che potevo vivere.
Vedendo i tuoi film, ci è sembrato che il tuo referente sia il presente, in assoluto. Che rapporto hai con il passato?
Cerco di pensarci il meno possibile, perché non voglio sentirmi vecchio.
A proposito di lungometraggio…quanti soldi pensi che ti ‘basterebbero’ per girare un film e che genere di film svilupperesti?
5 mila euro al massimo. Un documentario alla Mychael Moore sul Nordest.
Sara De Vido intervista Daniele Carrer per “Il Gazzettino”. Guarda l’originale.
Italia 2006: come mai questo titolo ad un corto in cui il protagonista (cioè tu) sembra perseguitato in casa sua da qualcosa che non riesce ad identificare?
Il titolo non ha alcun riferimento al contenuto. Quest’ultimo corto è molto tecnico, non ha parole, è adatto anche ai festival all’estero e indica chiaramente la provenienza della pellicola.
Sei sempre tu il protagonista? Sì, certo.
Per questione di soldi non posso pagare degli attori e faccio tutto io, dalla ripresa delle immagini fino al montaggio.
Cos’è per te produrre cortometraggi?
E’ una forma di espressione artistica. Una ribalta relativamente facile, perché non lo fa quasi nessuno. E poi, tecncamente, per suonare la chitarra avrei impiegato troppo tempo, quindi ho preso in mano la telecamera.
Il lavoro di regista non è la tua attività principale. Hai comunque delle soddisfazioni?
Non ho mai un riscontro immediato. Ai festival, a dire la verità, ricevo pochi applausi, ma il feedback c’è a posteriori. Molte persone mi scrivono commenti via e-mail. Alcuni miei lavori sono stati proiettati in Università. E da quando la trasmissione “La 25a ora” (La7) mi ha ospitato ho molti contatti. Spero che un giorno diventi il mio vero lavoro.
Hai mai pensato di ottenere dei fondi per i cortometraggi?
Molti fanno di tutto pur di arrivare a questi fondi statali, ma alla fine scendono a compromessi. Il cinema indipendente è senza dubbio migliore. Basti pensare all’ambiente che c’è negli USA.
Nei tuoi corti si parla della società del Nordest, come in “Vivere e morire a Nordest” e ‘II mio mondo personale I Parte”, dove la velocità è accelerata. Cosa vuoi trasmettere?
La mia critica non è offensiva, io sono parte del Nordest. I miei corti svelano il classico amore-odio per la propria città. “Il mio mondo personale” è stato criticato, perché non si coglie la coesione tra immagini e parole che trova una giustificazione so-lo nel finale, quando la riprese tornano a velocità normale. Adesso vorrei però produrre qualcosa di diverso: un video sugli incidenti stradali, e un cartone animato sulla sanità pubblica.
2004
Katia Da Ros intervista Daniele Carrer per la rivista “La Piazza”. Guarda l’originale.
Quali sono i premi più prestigiosi che ha ricevuto?
Il premio che ricevo più frequentemente è quello per il miglior montaggio. Mi è appena successo ad un festival in provincia di Avellino ed un sacco di altre volte in passato. Di per sé, poi, essere selezionato a manifestazioni che proiettano 30 opere sulle 1000 pervenute, a fianco di
cortometraggi vincitori del David di Donatello e dal budget di migliaia di euro, è un traguardo anche più importante.
Quando ha cominciato a fare video?
Tra la quarta e la quinta superiore, nel 1995, ho comprato la telecamera. Nella primavera del 1997 ho partecipato al mio primo Festival a Padova. Nel gennaio del 1998 Match Music Satellite ha trasmesso 4 miei video. L’anno scorso mi hanno proiettato a 47 festival e la RAI mi ha mandato in onda 6 volte.
Ti senti un artista?
Il difetto principale dei miei colleghi cineasti è quello di essere convinti di essere i più grandi registi del mondo, quindi, per evitare certi odiosi impeti di auto-considerazione, mi definisco un cineoperatore a tempo perso.
Cosa ti auguri per il futuro?
Prenderò un volo low cost per Barcellona e andrò a vedere cosa dicono gli spagnoli dei miei lavori. Se Ringo Starr è diventato il quarto Beatles, anche un uomo della strada può vincere l’Oscar.
Che rapporto hai con la tua città, Conegliano?
Non adoro le Mercedes parcheggiate il venerdì sera in via XX Settembre fuori dai locali pieni di ventenni imbrillantinati o i piccoli imprenditori quarantenni col villone fuori città che non sanno nemmeno parlare in italiano. Ma nel complesso, con tutto quello che succede al mondo, la cosa mi è molto meno fastidiosa di altre.
2003
Max Franceschini intervista Daniele Carrer per Altrocinema.it. Guarda l’originale.
Partiamo dalla casa di produzione che hai fondato: Utopia – Nuovi Artisti Futuri: parlaci di questa idea e soprattutto del senso che dai alla parola “Utopia” .
Il nome Utopia nasce nel 1999 durante la lavorazione del mio primo corto montato in digitale. Avevo capito che per essere notati, in mancanza di budget milionari, bisognava fingere di avere alle spalle una produzione importante. Mi inventai anche una serie di figure professionali, dallo sceneggiatore al tecnico di sonorizzazione, pur ricoprendo io in prima persona tutti questi ruoli. La mia utopia di quel tempo, e per fortuna anche di oggi, era di partire dalla provincia riuscendo un po’ alla volta a fare qualcosa di sensato nella desolazione del panorama cinematografico italiano.
Ora un’altra parola, “artista”…
Ho covato negli gli ultimi cinque anni il desiderio di scrivere sulla Carta d’Identità la professione di artista, ma per fortuna tre mesi fa, al momento del rinnovo, ho optato per il meno vistoso titolo di impiegato. La genialità di certe persone non è tanto legata all’essere in grado di produrre un’opera d’arte, ma alla capacità di convincere il mondo che si tratta di questo.
Quanto ha influito nella tua formazione artistica la terra e il tessuto sociale in cui vivi, il “Nord-est”?
Il “Nord-est” è una terra unica, lo capisci solo se ci vivi dentro. Se fossi nato a Roma è probabile che sarebbe stato tutto più facile. La fortuna di vivere da queste parti è che dove c’è la contraddizione c’è anche la possibilità di osservarla e di parlarne. In Svizzera di registi ce ne devono essere veramente pochi, al contrario di quello che succede negli Stati Uniti, Paese dove coesistono Beverly Hills e i bassifondi delle grandi città.
Com’é la giornata di Daniele Carrer, cosa c’é in quello che fai e che vedi tutti i giorni che “lavora” dentro di te per diventare poi un video?
Mi alzo alle otto per andare a lavorare alle nove in un negozio. Ci sto più o meno tutto il giorno e la sera, quando non esco, mi guardo una cassetta e sto davanti al PC a fare qualcosa di buono. Non so quanto i video che faccio siano influenzati dalla mia quotidianità attuale e quanto da quella di quando mi alzavo alle undici e non facevo niente tutto il giorno. Probabilmente se avessi voluto essere più tranquillo adesso sarei in una banca a controllare i conti correnti di qualcuno che non so nemmeno che faccia ha.
Come sei arrivato a questo tipo di linguaggio, e che evoluzione ha avuto da quando hai iniziato ad oggi? Quali sono i tuoi punti di riferimento artistico, e non parlo solo di video…
Le strutture narrative che ho costruito sono sempre partite dal presupposto che dovevo realizzare tutto da solo. Ci sono dei forti limiti creativi a lavorare in questo modo, ma alla fine si può combinare lo stesso. Dopo dieci corti, però, rischi di essere troppo riduttivo se non ti allarghi e pensi più in grande. Sono cresciuto guardando “L’uomo tigre” e studiando inconsciamente l’evoluzione del linguaggio pubblicitario negli ultimi venti anni. Faccio molta fatica ad assorbire qualcosa di più di quello che mi dà la contemplazione passiva della televisione. La conoscenza è dentro non fuori.
l tuoi lavori sono costruiti principalmente intorno a un testo dai tratti molto personali, con un uso di immagini dotate di una forte carica evocativa, immagini anch’esse fortemente soggettive, apparentemente originate da un diverso filo di pensiero, in realtà fortemente legate al testo da qualcosa di indecifrabile ma perfettamente coerente. Non a caso tante recensioni puntano l’accento sul fatto che il tuo linguaggio è quello del diario, è così?
L’altro giorno alla stazione ho incrociato lo sguardo con una ragazza che aspettava il treno che andava nella direzione opposta a quello stavo per prendere io. Ho pensato che non l’avrei mai più vista. Trovare le parole e le immagini giuste per descrivere un attimo del genere vuol dire fare un gran film. Una situazione così ti parla della precarietà delle persone e di come a volte si è incapaci di cambiare lo stato delle cose. Nessuno può insegnarti a sviluppare temi così complessi nei due minuti che dura un corto. Se sei in grado di farlo è solo perché hai capito come si parla del mondo, e quella è la strada giusta.
Le tue parole, che sono il motore dei tuoi lavori, potrebbero vivere senza le immagini, hai mai scritto o hai mai pensato di scrivere qualcosa che poi avesse vita propria?
Come in tutto quello che faccio scrivo sempre l’inizio e la fine delle cose. Mi manca solo la parte centrale. Ho nel cassetto un libro pieno di trovate fantastiche, ma non riesco a trovare il coraggio di affrontare l’onere psicologico necessario per portarlo a termine. Sono nella perenne attesa di raggiungere quella condizione che mi permetta di spremermi oltre.
Qual é il processo di costruzione di un tuo video, da cosa prendono corpo il testo, le immagini e come decidi di unire questi elementi insieme?
Il più delle volte scrivo prima le parole e se poi mi piacciono ci costruisco attorno le immagini. Quando finii di sforbiciare il testo dei quattro episodi principali di “Improvvisazioni di un artista fallito”, mi venne come un flash di ambientare il finale sulla tomba di Jim Morrison, magari dopo aver sventrato visivamente la stessa Parigi che un qualsiasi turista si trova davanti. A differenza di tante altre volte non cercai una collocazione più facile, perché quello era l’unico posto giusto. Aldilà del fatto che quello rimane il mio corto meno visto, certi percorsi sono fondamentali per crescere.
I tuoi riferimenti espliciti sono la televisione, i videogiochi, certi aspetti del consumismo. E’ questo l’immaginario di Daniele Carrer?
Più che il mio immaginario è quello della gente di cui mi interessa parlare. A volte a lavoro incontro persone con un sacco di soldi che non sanno nemmeno di essere al mondo. Sono gli stessi che lavorano dodici ore al giorno e che imparano quello che succede da “Striscia la Notizia”. Mi interessa scavare nelle ragioni sociali che permettono certi paradossi.
Cosa “pensi che pensino” coloro che vedono i tuoi lavori, o forse sarebbe meglio dire cosa ti aspetti che pensino… aspetta, la domanda giusta è: per quale motivo dovremmo passare alcuni minuti della nostra vita a vedere ed ascoltare “il mio mondo personale”, oppure “improvvisazioni di un artista fallito”…
Usufruire di un’opera cinematografica è un modo come un altro per trovarsi nella condizione di avere un orgasmo. C’è chi questo lo raggiunge guardandosi “Vacanze sul Nilo” e chi rimuginando per ore sulla capacità del regista di portare lo spettatore in determinati luoghi della mente. L’errore di tanti videomaker è cercare di produrre dei corti che piacciano moderatamente a tutti, il più delle volte senza riuscirci vista l’incapacità tecnica. A differenza loro, io ho sempre osato di inventarmi qualcosa che pur facendo schifo a nove persone su dieci, venga adorato dall’uomo che è rimasto.
A volte i tuoi lavori vengono collocati dai festival nella sezioni trash, oppure underground: pensi che queste categorie ti rappresentino?
La categoria nella quale vengo collocato più spesso è quella sperimentale. Il vero trash è chi spende cinquanta mila euro per fare un corto che è la brutta copia delle puntate di “Cento Vetrine”. Gli autori indipendenti saranno sempre ghettizzati da chi fa cinema in maniera tradizionale. Dobbiamo continuare per la nostra strada cercando canali alternativi per farci conoscere. La tecnologia ha dato la telecamera in mano a chiunque e non ci sono giustificazioni diverse dall’incapacità se non si riesce ad arrivare in alto.
A cosa stai lavorando ora?
Voglio finire quattro cortometraggi entro l’anno. A volte mi chiedo come sarebbe quello che faccio se non lavorassi e mi abbandonassi all’ozio per cercare una strada ancora più riflessiva. Quando non vengo selezionato a un Festival mi salgono quei trenta secondi in cui mi viene voglia di abbandonare tutto, ma dopo un po’ mi dimentico della delusione e ricomincio a pensare ai prossimi video. Ho conosciuto tanta gente invidiosa e irrispettosa degli altri in questo settore, ma accanto a loro ci sono state anche persone la cui esistenza artistica è massimo simbolo di integrità. Se sono arrivato qui è perché non ho mai mollato, come quando mi hanno riformato per inadattamento alla vita militare dopo 97 giorni di naja. Ricevo un sacco di lettere di ragazzini che vogliono diventare registi. Mi danno solo l’impressione che credano che per diventare Spike Lee basti comprarsi una telecamera e mettersi un pomeriggio a fare riprese con gli amici. Essere autori vuol dire vivere da autori 24 ore su 24, scommettendo su sé stessi come se non esistesse altra strada alla propria vita.
2000
Lorenzo Pecchioni intervista Daniele Carrer per Drop Out. Guarda l’originale.
Daniele Carrer pochi giorni dopo la realizzazione di questa intervista ha ricevuto la notizia dell’inaspettata vittoria a Videokids, festival friuliano ed ottimo riferimento per gli amanti della sperimentazione trash e underground. Ed ha vinto con “Il Mio mondo personale”, che, seppur simile a tante altre produzioni degli ultimi anni, dimostra inequivocabilmente la potenza del mezzo video, così limitato e limitante ma pericoloso come un cannone qualora posto tra le mani di chi vuole suggellare le emozioni più pungenti. Pericoloso, probabilmente, anche per l’effetto di “rinculo”. In questa intervista, scopriamo come Daniele gestisce questi due momenti.
Daniele Carrer nella sua localizzazione artistica resta comunque un personaggio di confine, perché pur lanciando brevi invettive con le immagini, lungi dal dir che faccia videopoesia; perché nonostante rifiuti l’idea di confrontarsi con gli attori, ha sempre come riferimento il mondo del cinema anche spettacolare, e perché comunque sia la sua presa di posizione è tutt’altro che tipicamente underground. Ecco l’intervista al frutto più “acido-lucido” (è il nome del suo lavoro più inedito) del Nord est italiano in video!
Hai cominciato a fare video circa 4 anni fa; da allora conti diverse partecipazioni a festivals, passaggi televisivi, ecc. Il tuo percorso ha una meta precisa o vivi la tua attività sublimando il presente? Raccontaci la tua storia.
Vivo nel tentativo di emergere, di esprimermi al di fuori delle solite 8 ore al giorno, 5 giorni alla settimana, 365 volte all’anno meno tre settimane ad agosto. Non posso fare a meno di invidiare certi irraggiungibili stati di grazia. Voglio sperare che dietro alla mia volontà non ci sia solo un’adolescenziale volontà di inseguire chissà quali miti californiani, e spero che la scelta di fare un dato tipo di video abbia confermato questa realtà. Quando tre anni fa mi sono visto in televisione, in quello che era pur un programmino sfigato, mi è venuto in mente che forse ne valeva la pena. Ho preso in mano la telecamera perché per imparare a suonare la chitarra ci voleva troppo tempo.
In quanto autore, ti identifichi in opere-diario pregne di disagio esistenziale. Attualmente, ti sarai accorto che in molte occasioni questo atteggiamento è considerato da un lato (cinema) logorroico e dall’altro (video-arte) totalmente antiquato. Ma contemplate a se, le tue opere colpiscono per l’impatto verbale, rivelandosi ricche di analogie e spunti interessanti, alle quali si ripensa facilmente a distanza di tempo, come a pensieri rimossi che tornano improvvisamente. Quali sono i vantaggi e gli svantaggi di questa forma-diario?
Credo fondamentalmente nella necessità di costruire i video cercando i giusti estetismi. La forma deve dare un senso ai contenuti. Ogni volta che mi arriva a casa la lettera di un Festival non mi stupisco di quello che c’è scritto. Posso non essere selezionato alla sagra paesana come posso vincere un Oscar. Io per primo mi sento preso in giro quando vedo i soliti corti girati con telecamere di fortuna dove si dice che la vita è male e il futuro non esiste. Bisogna convincere chi ti guarda che il ragionamento che precede le tue parole ha un senso, e lo puoi fare solo se fai bene il tuo lavoro di videomaker scrivendo cose particolari, studiando le inquadrature e montando in maniera consona a quello che hai in mano, nella speranza che prima o poi qualcuno si accorga di te.
L’ultimo tuo lavoro (vedi recensione) lascia l’impressione del”capolinea”. Cioè, quando la soggettiva del guidatore si arresta, e quando la voce fuori campo sigilla un definitivo atteggiamento di cinismo, allora l’impressione è che difficilmente potremmo vedere un seguito di questo film, mentre in In un mondo che anche se sisentiva uno sparo (suicidio?) l’opera non si concludeva così prepotentemente sul piano etico. Pensi di aver chiuso un periodo evolutivo?
E’ vero che si cresce, e che i video che facevo tre anni fa sono abbastanza diversi da quelli che faccio oggi, ma penso che non mi sia accaduto niente in grado di determinare la fine di un periodo. Concettualmente mi muovo sempre nello stesso modo: scrivo, giro e taglio, anche senza nessuno. Ciò mi da la libertà di non dover rendere conto a chissà chi di quello che faccio. Non posso più realizzare opere come “In un mondo che” perché richiedono lavorazioni lunghissime che non riesco a gestire oggi che ho un lavoro. “Il mio mondo personale”, invece, è un video semplicissimo, da girare in due giorni, ma non per questo manca di incisività. Quando metto in cantiere un cortometraggio non faccio mai l’errore di non confrontarmi prima con scene, luoghi e tempi di realizzazione compatibili con quello che ho.
Hai mai girato una fiction? L’impressione è che tu tenda ad allontanare la figura del personaggio dai tuoi video, come in un fatale rifiuto del mondo esteriore, un “mondo degli altri” che ti ha deluso (permettimi questa congettura!).
La mia megalomania non arriva a un livello tale da farmi ritenere deluso del mondo degli altri, perché purtroppo vivo e mi ingrasso della loro stessa vita. Non ho mai girato fiction partendo dal principio che non ho né la voglia né il pudore di cercarmi attori, e che comunque esiste tanta gente che lo saprebbe fare meglio di me. Non è il genere di produzione in cui sarei in grado di lasciare il segno.
Hai mai sentito il bisogno di gettarti una dimensione totalmente interiorizzata, abbandonando i riferimenti al mondo esterno?
Ho smesso di fare viaggi introspettivi a 8 anni. Certi estremismi culturali non fanno del bene a nessuno. Quando esco e mi trovo casualmente ad un tavolo con il solito finto genio che comincia a parlare di argomenti del genere non penso mai “questo è uno che ha capito tutto dalla vita”, mi dico piuttosto “certo che non gli passa proprio il tempo”. Non vorrei mai che qualcuno mi immaginasse a guardare film iraniani o a chiedere in prestito libri in biblioteca. Come apprezzavo i film sottotitolati che facevano la notte su Raitre, non ho problemi ad ammettere di guardare volentieri anche le commediole anni 70 con Alvaro Vitali.
Il disagio esistenziale testimoniato da molti tuoi video corrisponde a quello di una provincia piatta e grigia, di domeniche passate al bar o in sala giochi. Com’è la situazione dalle tue parti per gli artisti come te? Mi sembra sia una terra ricca di contrasti, e forse per questo più “reattiva”.
Il Nordest iperproduttivo in cui vivo è un ambiente del tutto particolare, e che per questo è una continua ispirazione per chi ci sta dentro poco meno che superficialmente. Da commesso mi è capitato di vendere un televisore al plasma da 20 milioni ad un’associazione culturale qui della zona. Non so quanti soldi ci possano essere dietro a un organismo che riesce a togliersi certi sfizi. Mi spaventa il fatto che invece a me nessuno darebbe nemmeno 50 mila lire per un video. Non ricordo chi nel film “Il disprezzo” diceva una cosa del tipo: “Quando sento parlare di cultura metto mano al portafoglio”, quando ho visto la commissione del televisore ho capito a cosa si riferiva.
Che impressioni ricavi da quello che succede ogni settembre sul Lido a Venezia?
Mi affascina parecchio la mondanità che gira intorno alla Mostra del cinema. Ci vado tutti gli anni, e sono il primo a piazzarmi davanti all’Excelsior per vedere chi esce. E’ chiaro che il vero cinema è altro, ma sono sicuro che è anche per tutto ciò che la maggior parte di noi è qui. Due mesi fa mentre ero seduto ad aspettare che venisse fuori chissà quale VIP. Una straniera si ferma e mi chiede: “Ma cosa aspetta tutta questa gente?”, dalla faccia che ha fatto dopo che le ho risposto ho capito che in quel momento forse mi sentivo un po’ scemo.
Che rapporto hai col mondo dei festivals di cortometraggi? Spedisci ancora molto spesso? Molti autori col tempo si annoiano, altri si fermano ad un loro presunto apice, o divengono maggiormente selettivi e riservati. Che si può fare per far circuitare maggiormente le opere di un certo tipo?
Sono poco selettivo, non spedisco solo a quelli che l’anno prima non si sono nemmeno degnati di dirmi se la cassetta era arrivata. Il trauma più grosso l’ho avuto appena preso internet: digitando il mio nome su un motore di ricerca ho scoperto a un anno e mezzo di distanza di essere stato trasmesso da un festival del quale non avevo più avuto notizie. Mi fa arrabbiare vedere che da due anni i festival li vincono sempre “Arturo” e “Pianissimo”. Ricordo nel ’98 a Castrocaro c’era una specie di critico che ogni tanto prendeva in giro gli autori, tra l’altro in maniera per niente simpatica nonostante fosse nelle sue intenzioni farlo. Penso che il cinema italiano l’abbia ucciso la gente come questa, prima ancora della famiglia Vanzina. La maniera migliore per far circuitare le proprie opere penso sia purtroppo quello di crearsi una mafia di amici e amici di amici, non necessariamente uomini di potere. Internet e la tecnologia sono forse l’unica strada per cambiare lo stato delle cose. Esistono diversi siti per i cortometraggi, e una volta superati i limiti della lentezza della rete forse si aprirà una nuova era.