In questa pagina mancano alcuni miei lavori, come l’ultimo che ho fatto, “Autopia Zen 41600” del 2007, “Improvvisazioni di un’artista fallito” e “Vivere e morire a Nordest”, entrambi del 2001 e i miei corti antecedenti al 1999. Già nel 2005, quando il programma di La7 “La 25a ora” mi dedicò una monografia, mi rifiutai di far trasmettere i titoli che ho appena citato e che avevo già prodotto all’epoca perché davano di me un’idea alla quale non volevo più pensare.
Conservo una loro copia, digitale e su cassetta, ma non credo che li ripubblicherò mai.
2006
2005
2004
2003
2002
Lorenzo Pecchioni recensisce “Il mio mondo personale II parte: 1977”:
Gli ultimi lavori di Daniele Carrer sono “Il mio mondo personale” parte II (“1977”) e parte III (“90210”), ennesimi capitoli della rappresentazione del suo “mondo”, che ha trovato in “Improvvisazioni di un artista fallito” l’episodio più avvincente, ma anche il più introverso e pessimista.
Data la contrazione esistenziale testimoniata in quest’opera, si poteva immaginare una svolta nelle produzioni dell’artista veneto. Gli ultimi prodotti ripercorrono invece i tracciati di lavori passati, come In un Mondo che o La Vita è un treno. Certo, lo fanno con maggiore consapevolezza, e cercando di osare qualcosa di più. Il cammino di questo autore è dunque lento, ma – spero – inarrestabile.
La ricetta ufficiosa dei video di Carrer è: testo parlato incalzante, contenuti sovversivi ma disillusi, immagini diariche tratte più o meno dalla realtà quotidiana. Perlomeno in 1977, Carrer cerca di rinnovare questo schema, e produrre immagini allegoriche, cosa che non aveva mai fatto. In questo caso, si tratta delle immagini di una Barbie che subisce tutte le violenze possibili immaginabili.
Avevamo notato già in passato immagini particolarmente “stilizzate”, come quelle dei palazzi veneziani riflessi nel canale (in Improvvisazioni) o quella storica dell’angolo del soffitto (in In un mondo che), ma questi frammenti erano comunque tratti dal reale, e non c’era l’intenzione, precedente alla fase di riprese, di produrre delle autentiche icone. Figlio della tendenza tipicamente videoartistica ad accumulare immagini e riconsiderarle in un secondo momento nel loro essere significanti, Daniele lavorava anzitutto con il montaggio e con il testo letterario. Non era ravvisabile, per questa ragione, nessuna traccia di una attitudine “fiction”.
In 1977 Daniele elegge questa sventurata Barbie al ruolo di attrice, quel ruolo che non ha mai avuto il coraggio di affibbiare a nessuno (che si sappia) se non – ma è una forzatura vederla in questi termini – a se stesso.
È indubbio che le immagini di Carrer colpiscano lo spettatore violentemente, e in diversi sensi: il montaggio, schizzato ed efficace; la discrepanza tra le immagini e i testi, e il modo altrettanto nevrotico di enunciarli, sono le tre caratteristiche principali di questo stile. Indipendentemente dai contenuti espressi, Carrer ha un modo di fare cinema davvero tagliente. Sa quello che vuole, e sa come ottenerlo. E tanto che si occupa di questa suo stile, e lo rende oramai con una fedeltà notevole, di facile fruizione allo spettatore medio.
Il problema dei video di Carrer sta piuttosto nel fatto che il disagio esistenziale di cui ci parla, viene affermato ormai quasi automaticamente. Ad un occhio perspicace, tradisce una mancanza di reale autoanalisi, e qualcuno potrebbe rivedervi un’elusione del problema. In questo non c’è niente di terribile, ma non ci si meravigli se, chi ha affrontato problematiche simili con strumenti filosofici più appropriati, provi l’impressione di assistere alle rappresentazioni di un opinionista immaturo, e non intenda andare oltre nella conoscenza di questo autore.
Inutile dire che il sottoscritto non è tra questi. Con la coda dell’occhio, avete già notato che questo testo continuerà ancora per diverse righe. Il sottoscritto è interessato al fenomeno Carrer, ed è interessato a quello che l’esperienza di Carrer ci insegna sulla figura del videomaker. Non prenderà in considerazione le opinioni che Daniele è istigato a promulgare dal suo stesso disagio, ma prenderà in considerazione il manifestarsi del disagio nell’aspetto cinematografico delle sue opere, e nel suo essere un autore video. Chiedo dunque scusa a Daniele, se sfrutto la sua vicenda a fini teorici, con la speranza di offrire a lui e a noi un punto di vista ulteriore con il quale confrontarsi.
In cosa consisterebbe fondamentalmente il disagio di Carrer? Nel delicato rapporto che, più o meno coscientemente, ha stabilito con la sua stessa immagine di autore.
È indubbio che ciascun videomaker produce opere non solo per rispettabili fini di ricerca, o viceversa per opportunistici fini professionali, ma anzitutto per esprimere un’immagine di sé. Esiste una terra di mezzo, tra l’estremo idealismo e l’estremo materialismo, e questa credo sia la terra dell’autore video indipendente, che sfrutta il mezzo video per realizzare la sua immagine di artista, e per conoscerla e modificarla attraverso l’interazione con le opere.
Carrer non ha fatto altro per anni, e lo ha fatto con rara puntualità. Ha disegnato la sua immagine nel modo più schietto possibile, senza fini prettamente artistici o narrativi, ma usando il video nel modo più diretto e comunicativo, cioè abbinando immagini e suoni che riguardano la sua esistenza, la sua problematica esistenziale, a volte quasi psicoanalizzandosi, ma in genere raccontandosi, semplicemente. E come lui lo hanno fatto decine di videomaker.
Identificata la sua immagine d’autore con queste opere, ha poi cercato di promuoverla nel miglior modo possibile, tramite festival, distribuzioni, partecipazioni e quant’altro. Ha gioito incredulo quando le giurie più strampalate l’hanno premiato; ha sofferto come un cane, nel silenzio notturno, quando altri l’hanno beffeggiato. Perchè Daniele era una cosa sola con le sue opere.
Ma dov’è precisamente il disagio? sta proprio nel dover venire a patti, coscientemente, con questa necessità di dare un’immagine forte di sé a sé e agli altri. E sta dunque nei motivi reconditi di questa necessità. Motivi che nessuno, se non l’autore, ha il diritto di riconoscere ed ammettere. Motivi che alla fine, però, esistono sempre, specialmente nel caso di qualsiasi individuo che in un qualsiasi senso possa definirsi autore.
Queste problematiche possono essere amplificate dall’attività videoartistica per una serie di ragioni. Ad esempio, occuparsi di video indipendente favorisce la riflessione sulla propria identità, per motivi personali (riprendersi, rivedersi, montarsi, occupare ruoli diversi nella produzione, persino personaggi diversi nel caso della fiction) e per motivi interpersonali di natura più generale (essere preso in considerazione da eventuali festival o critici, dagli altri autori, confrontarsi con l’inevitabile ambiguità della propria immagine d’autore).
Chi necessità in modo particolare di “venire a capo di sé”, può sviluppare una dipendenza dalla creazione videoartistica, che è un modo come un altro per affermarsi innanzi a se stessi e agli altri (“la telecamera è lo strumento di chi non ha avuto voglia d’imparare la chitarra”, dice lo stesso Carrer, è non ha tutti i torti…).
Ma il video stesso può aiutare a “curarsi”, perché aiuta a modificare la propria identità oggettivizzata nelle opere. In questi percorsi, esiste un momento, e dunque un’opera o una serie di opere, in cui l’autore si capacita di essere schiavizzato dalle proprie necessità di identificazione, e cerca di far partecipe di ciò lo spettatore (forse, una sublimazione della sua coscienza). Quest’opera potrebbe essere, nel caso di Carrer, Improvvisazioni di un artista fallito.
Dopo di che l’autore cambia. Nel suo percorso di autoanalisi, comincia ad entrare in una fase più costruttiva. E questo, in effetti, avviene in parte in 1977, dove sono riconosciute alcune necessità rappresentative ulteriori a quelle delle opere passate. Nonostante il fatto evidente che Carrer, per la gran parte delle sue nuove opere, si mantenga ancora nella sua area nevrotica, che gli permette di autoidentificarsi con facilità, e integrarsi alla sua solita immagine di autore. La quale può esserse così determinata: “un autore che vive conflittualmente il suo stesso essere autore”. o più schiettamente: “un autore che si identifica con il suo fallimento”. In pratica, l’autore corre incontro a questo suo fallimento, ciò che più teme, per realizzarlo e quindi per prevenirlo. Decretare il proprio fallimento, per non essere decretati falliti da qualcun altro. “Fare il morto diventa il mezzo per conservare la vita”. E infatti Carrer la sua vitalità l’ha conservata bene, a vedere quest’ultimo 1977.
Questa area di cui parlavo, è il luogo preciso, sacrale (mai ho usato questo termine in miglior circostanza), in cui l’autore, periodicamente, si nasconde per decretare il suo fallimento, e dunque riconoscersi. La possiamo ritrovare nella vicenda di altri videomaker (penso alla stanza del coniglio di Crociani, o la dark room di Polesello, o la casa Gli Orci di video&archeos, o i grovigli intestini di Bonizzato…l’elenco potrebbe continuare).
Una cosa che caratterizza quest’area, è che si struttura su valori collettivi. Qui, il rapporto che l’autore ha instaurato con la sua identità, è sempre lo stesso, anche se cambiano persone e metafore, cioè le apparenze di questo rapporto. Proprio per questa ragione, l’autore trova in questa dimensione il contatto con ciò che generalmente chiamiamo idee, eventi che, qualora si realizzano, sono da tutti intuitivamente compresi. Ma attenzione. Se l’autore si trattiene eccessivamente in questa situazione, rischia che il suo stato di “morte apparente” si trasformi in una “morte oggettiva”, cioè una ripetizione costante delle stesse idee, che vengono affermate in modo automatico e nelle stesse spoglie (anche qui, avrei diversi esempi di autori…).
La soluzione all’inghippo credo stia, anzitutto, nel riuscire ad entrare ed uscire in quest'”area”, bagnando la propria “morte” sempre di nuove metafore, perchè questo è ciò che le idee sembrano richiedere per restare vive.
In secondo luogo, smettere di essere schiavi della propria identità, e sfruttarla invece per creare situazioni intriganti. Senza pretendere di superare il disagio, ma sfruttandolo come terreno utile ad una rappresentazione spettacolare (essendo fondato su valori collettivi, questo problema è, potenzialmente, uno scenario teatrale autentico). Ecco cosa ha cercato di fare Carrer: ha cercato di fare del suo stesso dramma umano uno spettacolo. Io credo che questa sia la chiave di lettura più interessante della sua attività, eci permette di riconoscere anche una cerchia tutt’altro che ristretta di autori, che hanno sfruttato il video per venire a capo di sé stessi.
Torniamo dunque ai video di Carrer, e cerchiamo le tracce di questa ricerca, e dell’evoluzione di essa nelle opere non solo recenti. Le parole e il montaggio, nella loro danza conflittuale, già comunicano instabilità e autocompatimento. Chi conosce l’attività dell’autore avrà già trovato conferme, nei suoi ricordi, alle mie interpretazioni. Ma non dimentichiamoci che Carrer, in quanto videoartista, lavora sulle immagini. vediamo come queste, in particolare alcune, si coagulano e prendono senso nel montaggio.
Andiamo alla prima opera di rilievo della sua attività, “In un mondo che”. Quest’opera, ricca di annotazioni esistenziali sulle giornate vuote dell’adolescente, si conclude con l’immagine dell’angolo del soffitto, che l’autore, colto in un’inquadratura precedente, sta guardando.
In tutto il suo decorso, il video accumula una serie di frustrazioni parlate, paralellamente ad una serie di microtraumi di montaggio (con tratti ritmicii, sovrapposizioni). Tutta questa accumulazione viene esaurita sulle affermazioni e sui tagli finali, lasciandoci poi soli innanzi all’immagine dell’angolo del soffitto.
Questa immagine può essere letta come la soluzione alla quale il video avrebbe voluto condurci. Nell’angolo del soffitto, un giorno, guardandolo, si potrà trovare la risposta che ora non c’è.
In Improvvisazioni di un artista fallito, Carrer scarica le sue frustrazioni tramite il suo solito montaggio schizoide. A momenti di questo tipo, caratterizzati da immagini fotografiche, seguono immagini maggiormente narcisistiche, come i riflessi dei palazzi nel canale, o i tetti del paese, o le vetrate. Immagini che si pongono sempre o infondo ad un momento particolarmente intenso, o nel paragrafo successivo ad uno particolarmente teso.
L’opera parla schiettamente dei problemi d’identità di Carrer, del loro lento emergere alla consapevolezza. Queste immagini particolari, richiamano fortemente alla riflessione, e il vuoto che rappresentano è quel vuoto dove dovrà manifestarsi il problema nella sua oggettività. Un problema già individuato con le parole, ma non ancora con le immagini. E dunque, le immagini restano enigmatiche. Come sorta di cerchi magici al centro dei quali non appare nessun fantasma.
Carrer fa l’amore con queste “immagini differenziate”, come quando si fissa gli occhi del partner, subito dopo l’amplesso. Ma la ninfa che l’autore va inseguendo, è l’immagine stessa della sua diversità: ciò che lo determina dall’interno, ciò che gli permette di riconoscersi, e al contempo lo istiga a farlo.
Forse l’opera va letta all’incontrario: non è Carrer che ha determinato queste immagini finali, quasi generando, con uno sforzo artistico spesso sofferto, il loro essere così fortemente simboliche. Al contrario, è la forza celata dietro queste immagini, che ha generato l’opera dell’autore, applicandosi alla sua coscienza come un fattore esponenziale che lo ha ingigantito e modificato. in altre parole: Carrer forse è stato schiavo della sua identità.
Veniamo a 1977. Cosa è successo? L’autore sa bene che cosa succede in lui quando si applica alla creazione. La scena del prologo di Improvvisazioni di un artista fallito, con l’autore che si rivolge alla sua immagine nello specchio, lo testimonia a pieno. Per questo, per rivoltarsi al suo stesso destino, sa che non può far altro che passare all’azione. Il tono del discorso è addirittura baldanzoso, il montaggio è tagliente come al solito; Carrer non è mai affondato così tanto nella sua area nevrotica, e al contempo non ne è mai stato così indenne, sembra che abbia imparato a giocare. Tutto è pronto per la manifestazione del problema nella sua oggettività: così salta fuori la Barbie.
Carrer cerca di riempire il vuoto che caratterizzava le immagini come quella del soffitto e le altre, creando una fiction, piuttosto che trarre direttamente dal reale. Questo significa che Carrer ha riconosciuto la necessità di esteriorizzare il problema nelle immagini, in una immagine, e intervenire direttamente su di esso. Anche se forse, il modo migliore per intervenire non è la sevizia.
Ma i video di Carrer sono sempre stati analoghi a degli stupri, o delle violenze in generale. Questo perchè, quando si entra nella propria area nevrotica, i nostri movimenti sono quelli di un killer, e la nostra attività preferita è depistare lo spettatore con tracce assurde. Il problema è che molto spesso, il nostro ruolo è anche quello della vittima; da qui tutta una serie di feedbacks e arabeschi. Obiettivo del critico, potrebbe essere quello di riconoscere queste assurdità ed evidenziare l’essenza del delitto. Ma forse la cosa bella è proprio questa: che sia tutto così intrigante e labirintico, e che l’occasione buona per nascondersi, sia anche l’unica possibile per manifestarsi. Una grande messa in scena.
Andiamo a vedere dove confluiscono questa volta le accumulazioni del montaggio. Sembrano esaudirsi proprio sull’immagine della bambola, all’apice delle sevizie. Subito dopo, esattamente come in In un Mondo che o in Improvvisazioni di un artista fallito, seguono una serie d’immagini testimonianti una sorta di “calma dopo la tempesta”. In questo caso, si tratta di inquadrature macro di parti del corpo della barbie. Una categoria precisa dei significanti di Carrer, dove l’autore si sofferma finalmente lucido, esaudita l’espulsione del suo male.
Queste immagini, come si è detto, stavolta sono immagini oggettive, inquadrature di qualcosa di preciso che è stato messo lì con uno scopo altrettanto preciso. Ma allora, che cosa rappresentano queste immagini di Barbie martorizzata, particolari come la scarpetta insanguinata ed altri? non ci è permesso dirlo. Se si trattasse di riferimenti sessuali, sarebbe da intendere l’altro sesso come come metafora della presenza antinomica che, costantemente, determina la personalità dell’autore. Il trauma, la causa scatenante.
Rapporti simili, li ho riscontrati nei lavori di altri videoartisti. Ma fare ulteriori raffronti ci porterebbe ancora più lontano di dove, già adesso, siamo. Perchè anch’io, a scrivere questo testo, ho voluto raggiungere in tutti i modi la mia area nevrotica.
2001
Anonimo recensisce “Vivere e morire a Nordest”:
Daniele Carrer, vecchio frequentatore dei nostri siti, continua a sfornare cortometraggi con gran continuità e con evidente foga creativa, forse con splean. Abbiamo deciso di recensire queste due opere nello stesso testo perchè ci sembra non aggiungano molto ai passati titoli dell’autore. Improntate sullo stesso acuminoso senso diarico, e su un’idea di testo-illustrato che le rende irriconducibili sia al mondo della ricerca sui videolinguaggi sia a quello delle finzioni narrative, Il Mio mondo personale II e Vivere e morire a nordest portano avanti l’interrogazione sul disagio esistenziale di questo ragazzo veneto. In particolare nel secondo titolo, Daniele si schiera violentemente contro la concezione di iper-lavoro tipica delle sue terre (Nordest), ma attenzione: nelle sue invettive, oggi come ieri, l’autore non dà mai una soluzione a questo stato di cose, bensì si limita a viverlo, con sfacciatezza ed amore per la verità ultima, con odio da bambino (di quelli che riscaldano) e con acuto opportunismo, perchè in definitiva Carrer, oltre a far parte di questo mondo, comunque sia è uno che dove può succhia, senza guardare in faccia a nessuno. Mi sembra, in definitiva, che questa sua produzione ormai pluriennale di corti corrisponda non solo alla stessa paranoia creativa che attanaglia tanti ragazzi ed uomini veneti nel senso dell’iper-lavoro, ma abbia addirittura le fattezze stesse di un piano di marketing: ogni cortometraggio è impaccato in una custodia con copertina di ottima grafica, e viene spedito sistematicamente a tutti i festival possibili immaginabili, senza distinzioni etiche, ma semplicemente la’ dove è offerta la possibilità anche lontanissima di emergere. Ecco che possiamo trovarlo a Visionaria, ai Laghi di Marte, a Lucca, e ovunque andiamo. Ma anche negli archivi delle case di distribuzione e in quelli delle riviste. Annesso questo fatto, il personaggio – Carrer risulta ancora più nitido: l’autore pone al centro del suo lavoro la sua affermazione personale, e non ha interessi particolari per il linguaggio, ne’ per raccontare, o almeno queste cose vengono in secondo piano. Ciò, è esattamente quello che traspare dalle sue opere, è detto, è fatto, e dunque possiamo riconoscere a Daniele una rara capacità di realizzazione, visto che nella stragrande maggioranza dei casi i proprositi degli artisti indipendenti si fermano alle parole. Senza contare che pulsioni simili, presenti in modo compromettente nella maggior parte degli artisti partecipanti a festivals, vengono generalmente nascoste sotto una coltre di buonismo, impegno sociale e di vario genere. A Carrer va il merito di non prendere per il culo nessuno, risultando persona assai più onesta di quel che ci vuol far passare coi suoi acuminosi video.
Detto questo, c’è comunque da appuntare una certa ricerca sul linguaggio, per lo meno in Il Mio mondo personale II, seconda parte del corto che ha vinto Videokids di Udine ed Officine Cultura di Ferrara. Un testo sovraimpresso alle solite immagini di folla, già usate per In un mondo che, scorre lentamente, dal basso verso l’alto. I caratteri sono minuti ma leggiamo la composizione. Nel frattempo musica e immagini coadiuvano l’esperimento, che mi sembra abbastanza riuscito indipendentemente dai contenuti del testo. L’operazione materializza la possibilità di creare con il montaggio, indipendentemente dalle disponibilità di riprese inedite; conferma un certo coraggio, e gratifica l’idea di “fare video” portata alle sue conseguenze specifiche.
Vivere e Morire a Nordest è invece il lavoro meglio prodotto dal punto di vista tecnico, con un ordinato montaggio verticale caratterizzato da diversi picture-in-picture, e da una discreta drammaturgia nel parallelismo tra le parole ed il ritmo di montaggio. Tuttavia, rispetto a passate opere più coraggiose come Il Mio mondo personale II o In un mondo che, si arretra ad una visibilità quasi televisiva, tralasciando il lavoro sulla creazione di un linguaggio inedito personale.
Il consiglio che vorremmo dare a Daniele è di raccogliere i suoi video degli ultimi anni in una bella compilation, fare ancora una volta una splendida copertina, annotare tutte le collaborazioni ed i ringraziamenti del caso e dichiarare conchiuso un periodo del suo percorso artistico. Provare, insomma, a confrontarsi con qualche cosa di diverso. Ma sono convinto che l’autore non aveva bisogno del nostro consiglio per capacitasi di ciò! Noi intanto continueremo a promuovere i suoi video e mostrarli nelle serate di proiezione che a volte organizziamo, e come esempi di creazione specificamente video, nel caso di lezioni e consulenze.
Giovanni Polesello recensisce “Improvvisazioni di un artista fallito”:
“Sogno di andarmene a letto sapendo che le parole che ho detto mi permettono di essere pensato anche quando sto dormendo. Vivo nell’ossessione di calibrarmi fino all’ultima virgola, per cercare che la gente non si dimentichi di me alla prima occasione di caos. Rincorro l’alone di decadenza che hanno quelli che camminano con il colletto girato. Costruendomi un contesto in grado di dare genialità, risposte e stile. Ti credi una persona felice? No”.
Daniele Carrer ha scelto la strada del video diario per dire delle cose che, a quanto pare, lo riguardano da vicino. E’ una scelta anomala e coraggiosa. I videomakers italiani generalmente si nascondono molto. L’impressione forte di trovarsi di fronte ad un tema scolasticamente ben svolto per me è sempre piuttosto sgradevole, tant’è che preferisco i video brutti, ma con un barlume di vita dentro, piuttosto che le composizioni ben fatte, ma fredde, che non riportano all’autore. “Sogno di andarmene a letto sapendo che le parole che ho detto mi permettono di essere pensato anche quando sto dormendo. Vivo nell’ossessione di calibrarmi fino all’ultima virgola, per cercare che la gente non si dimentichi di me alla prima occasione di caos. Rincorro l’alone di decadenza che hanno quelli che camminano con il colletto girato. Costruendomi un contesto in grado di dare genialità, risposte e stile. Ti credi una persona felice? No”.
Daniele Carrer ha scelto la strada del video diario per dire delle cose che, a quanto pare, lo riguardano da vicino. E’ una scelta anomala e coraggiosa. I videomakers italiani generalmente si nascondono molto. L’impressione forte di trovarsi di fronte ad un tema scolasticamente ben svolto per me è sempre piuttosto sgradevole, tant’è che preferisco i video brutti, ma con un barlume di vita dentro, piuttosto che le composizioni ben fatte, ma fredde, che non riportano all’autore. Carrer non si sublima in una narrazione, non cerca di rappresentare le sue paranoie attraverso una simbolizzazione, non tenta di affidare la sua voce a qualche attore improvvisato. Semplicemente si fa una vacanza, gira delle inquadrature e poi ci parla sopra. Utilizza inoltre scritte a tonnellate, fisse o scorrevoli. In realtà c’è molto silenzio, in questo video, poiché non c’è mai traccia di musica. La colonna sonora è quella originale: i rumori della strada, il traffico, le voci della gente. Tra testo (parlato o scritto) e immagini il rapporto può esserci come non esserci. A Carrer, curiosamente, la cosa sembra non importare molto. Potrei inferire che per Carrer il rapporto è quasi simbiotico, perché quelle immagini sono sue, così come suo è il testo. In realtà è il testo a scaldare le immagini e a renderle vive, perché il taglio dell’inquadratura e la distanza dai soggetti ripresi è sempre piuttosto raggelante, documentaristica. Con l’eccezione di un primo piano di una ragazza che legge una lettera. Si tratta proprio di una bella ripresa, la ragazza ride con gli occhi. E’ qualcosa di vicino ad una buona fiction, ma è l’unica volta, almeno in questo video.
Le parole di Carrer scorrono a fiumi. Carrer non ignora come si compone un testo, come del resto non ignora come si compone una buona inquadratura. Forse, a tratti, nel primo caso (testo) possiamo riscontrare delle ridondanze, nel secondo (inquadratura) qualche compiacimento formale. Ad ogni modo, dato che generalmente gli autori qui recensiti si sono fatti da soli, tanto di cappello.
“Sogno di andarmene a letto sapendo che le parole che ho detto mi permettono di essere pensato anche quando sto dormendo. Vivo nell’ossessione di calibrarmi fino all’ultima virgola, per cercare che la gente non si dimentichi di me alla prima occasione di caos. Rincorro l’alone di decadenza che hanno quelli che camminano con il colletto girato. Costruendomi un contesto in grado di dare genialità, risposte e stile. Ti credi una persona felice? No”.
Daniele Carrer ha scelto la strada del video diario per dire delle cose che, a quanto pare, lo riguardano da vicino. E’ una scelta anomala e coraggiosa. I videomakers italiani generalmente si nascondono molto. L’impressione forte di trovarsi di fronte ad un tema scolasticamente ben svolto per me è sempre piuttosto sgradevole, tant’è che preferisco i video brutti, ma con un barlume di vita dentro, piuttosto che le composizioni ben fatte, ma fredde, che non riportano all’autore. Carrer non si sublima in una narrazione, non cerca di rappresentare le sue paranoie attraverso una simbolizzazione, non tenta di affidare la sua voce a qualche attore improvvisato. Semplicemente si fa una vacanza, gira delle inquadrature e poi ci parla sopra. Utilizza inoltre scritte a tonnellate, fisse o scorrevoli. In realtà c’è molto silenzio, in questo video, poiché non c’è mai traccia di musica. La colonna sonora è quella originale: i rumori della strada, il traffico, le voci della gente. Tra testo (parlato o scritto) e immagini il rapporto può esserci come non esserci. A Carrer, curiosamente, la cosa sembra non importare molto. Potrei inferire che per Carrer il rapporto è quasi simbiotico, perché quelle immagini sono sue, così come suo è il testo. In realtà è il testo a scaldare le immagini e a renderle vive, perché il taglio dell’inquadratura e la distanza dai soggetti ripresi è sempre piuttosto raggelante, documentaristica. Con l’eccezione di un primo piano di una ragazza che legge una lettera. Si tratta proprio di una bella ripresa, la ragazza ride con gli occhi. E’ qualcosa di vicino ad una buona fiction, ma è l’unica volta, almeno in questo video.
Le parole di Carrer scorrono a fiumi. Carrer non ignora come si compone un testo, come del resto non ignora come si compone una buona inquadratura. Forse, a tratti, nel primo caso (testo) possiamo riscontrare delle ridondanze, nel secondo (inquadratura) qualche compiacimento formale. Ad ogni modo, dato che generalmente gli autori qui recensiti si sono fatti da soli, tanto di cappello.
Carrer in effetti si è fatto da solo e si fa anche da solo. In tutto il video la sensazione di solitudine è opprimente, e il narcisismo svelato dalla continua autoreferenzialità non fa che appesantirla. Carrer parla solo di sé stesso e delle sue frustrazioni: “…Grazie all’esasperata ricerca della diversità sono giunto alla peggiore delle monotonie. Non riuscirei mai a parlare di me senza avere l’impressione di annoiare chi mi sta ascoltando…”. I contenuti però è difficile metterli in discussione, perché rappresentano una valida presa di posizione contro determinati autoinganni, determinati “sogni ad occhi aperti”, disperatamente infantili e continuamente disillusi: “Avrei voluto far parte della famiglia Robinson. Avrei voluto una cazzo di BMW stile Kelly Taylor e avrei voluto una Pamela Anderson a consolarmi in tutti i momenti difficili. Sono sicuro che se queste cose fossero successe adesso non sarei qui a parlare. Vorrei cancellare tutto quello che ha a che fare con l’essere alternativi, perché rimpiango ogni simbolo della convenzionalità e che la mia vita non si sia intersecata con nessuno di questi”.
Carrer parla appunto della disillusione e dell’autoinganno di chi ha cercato di costruirsi attorno un aura di artista, senza magari aver mai avuto la forza di crederci fino in fondo. E’ un tema forse adolescenziale, ma a tratti Carrer lo affronta con una tale rabbia da farci pensare che l’artista non sia affatto fallito, ma che attenda solo, pazientemente, il suo turno. “Sbaglia chi crede a quelli che sorridono sempre, perché la vita è brutta. E se sorridono loro qualcun altro piange”.
Questa frase mi sento di sottoscriverla, di ammirarla, e penso che sia una di quelle che fanno la poesia di questo video. in effetti si è fatto da solo e si fa anche da solo. In tutto il video la sensazione di solitudine è opprimente, e il narcisismo svelato dalla continua autoreferenzialità non fa che appesantirla. Carrer parla solo di sé stesso e delle sue frustrazioni: “…Grazie all’esasperata ricerca della diversità sono giunto alla peggiore delle monotonie. Non riuscirei mai a parlare di me senza avere l’impressione di annoiare chi mi sta ascoltando…”. I contenuti però è difficile metterli in discussione, perché rappresentano una valida presa di posizione contro determinati autoinganni, determinati “sogni ad occhi aperti”, disperatamente infantili e continuamente disillusi: “Avrei voluto far parte della famiglia Robinson. Avrei voluto una cazzo di BMW stile Kelly Taylor e avrei voluto una Pamela Anderson a consolarmi in tutti i momenti difficili. Sono sicuro che se queste cose fossero successe adesso non sarei qui a parlare. Vorrei cancellare tutto quello che ha a che fare con l’essere alternativi, perché rimpiango ogni simbolo della convenzionalità e che la mia vita non si sia intersecata con nessuno di questi”.
Carrer parla appunto della disillusione e dell’autoinganno di chi ha cercato di costruirsi attorno un aura di artista, senza magari aver mai avuto la forza di crederci fino in fondo. E’ un tema forse adolescenziale, ma a tratti Carrer lo affronta con una tale rabbia da farci pensare che l’artista non sia affatto fallito, ma che attenda solo, pazientemente, il suo turno. “Sbaglia chi crede a quelli che sorridono sempre, perché la vita è brutta. E se sorridono loro qualcun altro piange”.
Questa frase mi sento di sottoscriverla, di ammirarla, e penso che sia una di quelle che fanno la poesia di questo video. non si sublima in una narrazione, non cerca di rappresentare le sue paranoie attraverso una simbolizzazione, non tenta di affidare la sua voce a qualche attore improvvisato. Semplicemente si fa una vacanza, gira delle inquadrature e poi ci parla sopra. Utilizza inoltre scritte a tonnellate, fisse o scorrevoli. In realtà c’è molto silenzio, in questo video, poiché non c’è mai traccia di musica. La colonna sonora è quella originale: i rumori della strada, il traffico, le voci della gente. Tra testo (parlato o scritto) e immagini il rapporto può esserci come non esserci. A Carrer, curiosamente, la cosa sembra non importare molto. Potrei inferire che per Carrer il rapporto è quasi simbiotico, perché quelle immagini sono sue, così come suo è il testo. In realtà è il testo a scaldare le immagini e a renderle vive, perché il taglio dell’inquadratura e la distanza dai soggetti ripresi è sempre piuttosto raggelante, documentaristica. Con l’eccezione di un primo piano di una ragazza che legge una lettera. Si tratta proprio di una bella ripresa, la ragazza ride con gli occhi. E’ qualcosa di vicino ad una buona fiction, ma è l’unica volta, almeno in questo video.
Le parole di Carrer scorrono a fiumi. Carrer non ignora come si compone un testo, come del resto non ignora come si compone una buona inquadratura. Forse, a tratti, nel primo caso (testo) possiamo riscontrare delle ridondanze, nel secondo (inquadratura) qualche compiacimento formale. Ad ogni modo, dato che generalmente gli autori qui recensiti si sono fatti da soli, tanto di cappello.
Carrer in effetti si è fatto da solo e si fa anche da solo. In tutto il video la sensazione di solitudine è opprimente, e il narcisismo svelato dalla continua autoreferenzialità non fa che appesantirla. Carrer parla solo di sé stesso e delle sue frustrazioni: “…Grazie all’esasperata ricerca della diversità sono giunto alla peggiore delle monotonie. Non riuscirei mai a parlare di me senza avere l’impressione di annoiare chi mi sta ascoltando…”. I contenuti però è difficile metterli in discussione, perché rappresentano una valida presa di posizione contro determinati autoinganni, determinati “sogni ad occhi aperti”, disperatamente infantili e continuamente disillusi: “Avrei voluto far parte della famiglia Robinson. Avrei voluto una cazzo di BMW stile Kelly Taylor e avrei voluto una Pamela Anderson a consolarmi in tutti i momenti difficili. Sono sicuro che se queste cose fossero successe adesso non sarei qui a parlare. Vorrei cancellare tutto quello che ha a che fare con l’essere alternativi, perché rimpiango ogni simbolo della convenzionalità e che la mia vita non si sia intersecata con nessuno di questi”.
Carrer parla appunto della disillusione e dell’autoinganno di chi ha cercato di costruirsi attorno un aura di artista, senza magari aver mai avuto la forza di crederci fino in fondo. E’ un tema forse adolescenziale, ma a tratti Carrer lo affronta con una tale rabbia da farci pensare che l’artista non sia affatto fallito, ma che attenda solo, pazientemente, il suo turno. “Sbaglia chi crede a quelli che sorridono sempre, perché la vita è brutta. E se sorridono loro qualcun altro piange”.
Questa frase mi sento di sottoscriverla, di ammirarla, e penso che sia una di quelle che fanno la poesia di questo video.
2000
Il mio mondo personale I parte: elogio alla violenza.
Recensione di Mike Markionni per Drop Out:
L’occhio-camera posizionato sul cruscotto dell’auto, rivolto a guardare l’intersecarsi delle strade, a seguire il formicolante traffico dentro e fuori città. Una voce fuori campo, apparentemente senza nessun nesso con lo scorrere frenetico delle immagini, inveisce contro l’ipocrisia dei benpensanti e la mediocrità di una società falsamente perbenista.
Daniele Carrer ha la mia stessa età più o meno, la sua infanzia e la sua formazione in quegli anni è simile alla mia e a quella di tantissimi nostri coetanei, un’ infanzia trascorsa davanti alla televisione, fatta di cartoni animati nipponici, i vari robot, Megaloman, Ken il Guerriero, trascorsa dentro le sale giochi e i bar sprecando gettoni e tempo davanti a videogames, tutte produzioni, quelle appena citate, atte ad esaltare la naturale predisposizione del bambino alla violenza. Ed è proprio l’esaltazione della violenza, come recita il sottotitolo, il fulcro di quest’opera; violenza vista come unico modo di reagire alla mediocrità e all’apatia di una società che solo per istinto di autoconservazione e per paura si cela dietro le maschere del perbenismo e del ben pensare, violenza vista come modo per innalzarsi al di sopra di tutto questo, perché come dice lo stesso autore, essa non fa parte della mediocrità, ma appartiene ad un’ altra sfera di coscienza. Daniele Carrer dichiara con inquietante orgoglio il suo diritto di sbattersene di tutto e di tutti, con cinismo, distacco e drammatica sincerità, partendo da una lucida analisi personale non priva di autocritica; e pur non dichiarandosi violento, quindi condannato ad avere anch’esso un’ esistenza che nuota nel magma della mediocrità, confessa tutta la sua attrazione verso la violenza e tutto ciò che concerne ad essa.
Sono rimasto molto colpito da questo corto che non è lungo più di tre minuti e mezzo e concentra tutta la sua dirompenza lessica e visiva in un lasso di tempo in cui lo spettatore viene investito senza l’opportunità di reagire o riflettere, se non in un secondo momento e solo dopo aver finito la visione. Un opera violenta, appunto.
Produci, consuma, crepa, diceva lo slogan dei CCCP nella metà degli anni ottanta. Nulla è cambiato se non in peggio, ancor oggi, come ci mostrano le immagini finali del corto che si sofferma all’interno di un grande centro commerciale. Nulla cambierà, potete starne certi, anche se ogni tanto qualcuno, armato di una mazza da baseball, farà una strage all’interno di uno di questi posti, fracassando teste senza guardare in faccia nessuno, proprio come in Double Dragon.
1999
La vita è un treno
Lorenzo Pecchioni per Drop Out (recensione “La Vita è un treno” e “In un mondo che”).
Daniele Carrer è un giovane autore video di Conegliano, che recentemente ha fondato la sua casa di produzione: Utopia -Nuovi Artisti Futuri. Conta diverse partecipazioni a festival, ed alcune proiezioni televisive. Qui presentiamo due dei suoi lavori, simili fra loro, tanto che potrebbero essere considerati diversi paragrafi di uno stesso diario, e di uno stesso malessere. Sì perché In un mondo che e La vita è un treno appaiono subito come sublimazioni di un forte sentimento di alienazione; una voce in sottofondo narra di questo malessere, mentre si susseguono immagini volutamente scarne (come quella dell’angolo del soffitto), testimonianti un vuoto esistenziale, accordate tra loro da un ottimo montaggio; proprio il montaggio sembra essere l’unico complesso sbizzarrito, brulicante, pulsante, vitale, imprigionato nell’oggetto speculativo del video, cioè la stasi dell’alienazione. Esiste quindi un rapporto schizofrenico tra i contenuti e la forma. Dunque, a mio avviso è proprio l’energetica del montaggio, a testimoniare l’istinto della materia di interagire con essa stessa, cioè, rappresenta l’anima in subbuglio nei momenti in cui, per varie ragioni o per scelta, non interagiamo col mondo e ci chiudiamo in noi stessi.
Io credo che l’autore sia perfettamente cosciente, che trattare con ossessione l’argomento dell’alienazione, che forgiare due opere così allarmanti nella loro consecutività, possa determinare la presa di distanza da parte di diversi spettatori; perché è facile conchiudere il cerchio e archiviare i lavori con frasi come “il ragazzo è depresso”, o “è la solita roba adolescenziale” o “è già visto e rivisto”, o “lo spettatore può solo stoppare” o “è assolutamente fine a se stesso”. Dunque, immagino che Daniele Carrer abbia in qualche modo voluto portare all’eccesso questo sentimento, inducendolo anche negli spettatori, affinché esso stesso potesse svelare una suo senso nascosto, poiché nella patologia l’uomo può riscoprire le peculiarità del suo essere.
Il mio interesse si rivolge al come questo male esistenziale viene prima favorito, poi intuito in comunione ontologica con alcune immagini e poi formattato, distillato, espresso e fermato tramite un uso particolare delle dissolvenze, dei cut-up, del montaggio in generale.
Dunque, almeno nel primo di questi due video, io riscontro un uso del montaggio particolarmente significativo. In La vita è un treno questo aspetto viene un po’ a meno, a favore di un finale ad effetto, forse un po’ troppo semplicistico. Ma sottolineo l’uso che Daniele fa della sua voce narrante, che accarezza lo spettatore, come in uno stato di semicoscienza e invasamento precedente ad un esecuzione o a un suicidio, con un intonazione lasciva e diabolica, quasi solleticata dalla propria tragedia, ma ormai annoiata pure da questo. Finché il demone che si ha dentro lo si sa tenere a guinzaglio, allora potrà condurci ad avamposti stilistici ove la conoscenza può divenire potenza.